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LA CITTÀ NEL DOPOGUERRA

Una nuova indagine sui processi ai fascisti

«A Verona l'eccezione: furono condannate più donne che uomini Il loro ruolo sottovalutato, esisteva un servizio ausiliario femminile»
Il ricercatore Andrea Martini, con Giulia Albanse e Federico Melotto
Il ricercatore Andrea Martini, con Giulia Albanse e Federico Melotto
Il ricercatore Andrea Martini, con Giulia Albanse e Federico Melotto
Il ricercatore Andrea Martini, con Giulia Albanse e Federico Melotto

Nella sede dell'Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea, sono stati presentati i risultati dei recenti studi del ricercatore veronese Andrea Martini, dottorando in Studi internazionali all'università «L'Orientale» di Napoli, sui processi alle fasciste effettuati dalle corti d'assise straordinarie all'indomani della Liberazione. Lo studioso si è occupato del fenomeno del collaborazionismo femminile in alcune province venete, compresa Verona. Interessanti le informazioni rilevate. Sono intervenuti alla conferenza anche Federico Melotto, direttore dell'Istituto veronese per la storia della Resistenza, e Giulia Albanese, docente e ricercatrice all'università di Padova.
«Per collaborazionismo s'intende un atto di sostegno all'occupante tedesco e quindi, al contempo, alla Repubblica sociale italiana (Rsi)», ha chiarito Martini. Varie furono le motivazioni che indussero le donne a scegliere la causa collaborazionista ed il ricercatore veronese si è soffermato, in particolare su come queste donne furono processate. Essere giudicati nell'estate del 1945, è stato detto, «è diverso che subire un procedimento giudiziario nel maggio 1946» o ancor di più dopo la cosiddetta «amnistia Togliatti» emanata il 22 giugno 1946. Perché, è stato sottolineato, le regole del gioco (le modalità della composizione della corte) cambiarono in corso d'opera. «La giurisprudenza vuole garantire il rispetto di principi giuridici basilari, mentre la politica in quel frangente vuole avviare un nuovo corso, voltar pagina».
Nella Rsi le donne non avevano lo stesso accesso degli uomini agli incarichi. Martini ha ricordato però che vi era «il servizio ausiliario femminile, fondato nell'aprile 1944, una struttura che coopera con l'esercito repubblicano». Ed ha demolito i luoghi comuni sulle collaborazioniste, spesso definite sbrigativamente solo come amanti del nemico. «C'è questa idea di derubricare il collaborazionismo femminile a cosa di poco conto. In realtà, analizzando le sentenze di cinque province venete (Verona, Venezia, Vicenza, Padova e Rovigo), ho riscontrato un numero di imputate pari a 134, in termini percentuali rappresentano il 4%. Se contestualizziamo il dato, ricordando le possibilità che le donne avevano di accedere alla sfera pubblica, credo che sia una percentuale tutt'altro che irrilevante».
Martini si è soffermato anche sull'età media delle collaborazioniste: «La tesi di fondo, soprattutto dei nostalgici di Salò, è che il collaborazionismo sia stato un gesto di qualche giovane fascista che era inconsapevole delle conseguenze delle proprie azioni, un peccato di gioventù… Ma confrontando l'età media delle imputate ho visto che è pari a 30 anni, un'età media elevata». Quindi si tratta di «persone mature, consapevoli delle proprie azioni, che sposarono la causa collaborazionista per ragioni diverse fra loro ma non, sicuramente, per inesperienza».
Si tratta di un dato costante sia in Veneto che nel resto d'Italia. Il ricercatore ha riscontrato che la percentuale delle condannate è pari al 40%. «Vi sono degli estremi: a Verona il numero delle donne condannate è pari al 60% delle imputate (Verona è la corte con più condannate) mentre altre corti, come quella di Vicenza, hanno percentuali nettamente inferiori», ha aggiunto Martini che ha evidenziato come il dato assuma un valore maggiore se confrontato con gli uomini condannati. «Mi sono chiesto se di fronte alle donne i giudici fossero più o meno indulgenti ma non ne ho ricavato un'unica conclusione. In termini percentuali, in molti casi le donne condannate furono inferiori agli uomini, con l'eccezione di Verona». Allargando l'orizzonte di ricerca al resto d'Italia si giunge alla medesima conclusione: le donne condannate sono, in percentuale, meno degli uomini: «Sono circa il 36% delle processate, a fronte di un 50% di uomini condannati rispetto alla totalità di processati». Martini si è pronunciato anche sul ruolo dei giudici: «Vi è molto forte, da parte della giuria, la necessità di emettere giudizi morali su queste donne. Quelle che non rispettavano il canone della rispettabilità venivano condannate a pene molto severe, mentre si usava un atteggiamento più indulgente verso le altre. Il giudice sembra farsi portavoce di un'esigenza dell'intera società, dominata dalla sfera maschile, di regolamentare l'operato delle donne e soprattutto dell'esigenza di accantonare il protagonismo femminile che si era reso manifesto durante guerra civile dove alcune donne avevano sposato la causa partigiana e altre la causa fascista, e appunto di riportarle in un angolo in una società che voleva ancora essere maschile e che voleva ancora vedere la donna in una posizione di rincalzo».

Marco Scipolo

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