Basta con «queste omelie interminabili, noiose, nelle quali non si capisce niente». Il monito, sembra quasi lo sbuffo di un giovane discolo che controvoglia ascolta messa seduto, tra i genitori, sui banchi di una chiesa. E invece, l'affettuosa tirata d'orecchie arriva nientemeno che da Papa Francesco in persona che l'altro giorno, incontrando il clero nella cattedrale di San Rufino - tappa del suo pellegrinaggio ad Assisi, così si è rivolto ai sacerdoti. Aggiungendo un ironico, «questo è per voi, eh?», come per fugare ogni dubbio. Si tratta di un'indicazione, più che di un suggerimento, suggellata dagli applausi e dalle risate dei fedeli, formulata durante uno dei suoi molti «fuori programma» e arrivata dritta ai presenti. E non solo. Raccontata dai media, ha fatto in poche ore il giro del globo approdando anche in riva all'Adige, nelle parrocchie e nelle canoniche della città, che ne hanno colto un interessante spunto di riflessione, anche personale. «Indubbiamente si tratta di metodi e “stili” che ciascun parroco ha. Papa Francesco ci sta dando un esempio di omelia semplice e molto breve. E ritengo sia una modalità che dovremmo recuperare: a chiedercelo in primis sono gli stessi fedeli», è il parere di don Carlo Vinco, parroco del Tempio Votivo. Per Vinco, componente essenziale di quei minuti di «discorso amicale», volgarmente chiamati predica, è la vicinanza alla quotidianità delle persone, la «concretezza». «Una concretezza che non si traduce in esempi banali ma nella misericordia verso ogni situazione di vita». «La situazione delle omelie nel clero è davvero disastrosa. Non credo sia questione di tempo, di minuti di parlato, ma di contenuti. Il nostro compito non è veicolare idee, morale, ma la Parola di Dio, nella sua fantastica semplicità». Questa voce piuttosto critica appartiene a don Andrea Brugnoli, parroco di San Zeno alla Zai e fondatore dei gruppi di giovani che scendono nelle strade, nei luoghi di aggregazione dei coetanei, proprio per diffondere la Parola. «Il proposito che mi sono dato è quello di seguire la parola di Isaia: consolate il mio popolo. L'omelia deve essere sempre e necessariamente una buona notizia. Una speranza che ci riguardi, che sia attinente alla quotidianità di ciascuno di noi e in cui ciascuno possa trovare Dio. Il compito di noi sacerdoti deve essere quello di annunciare e diffondere parole di speranza e di bontà, non un ordine morale», puntualizza Brugnoli. «Il nostro compito non è creare steccati morali ma aprire alla vita, qualsiasi essa sia», concorda infatti don Vinco. Non di sole omelie, però, è fatta la comunicazione che avviene tra sacerdote e i suoi fedeli. Ne è convinto, ad esempio, monsignor Antonio Finardi, parroco della Cattedrale. «Chi vive nella pastorale incontra la gente e comunica con la gente durante l'intera celebrazione, non solo durante l'omelia. Ogni singolo momento della funzione religiosa deve essere pensata per trasmettere un'idea, un concetto: ciò che ho preparato e che diventa il mio obiettivo di comunicazione diretta. Un canto vivacissimo, ad esempio, è capace di legare la vita alla parola», spiega Finardi. «Il grande insegnamento che Papa Francesco ci sta dando è anche quello dell'attenzione ai segni indiretti: la liturgia è anche nei gesti, non solo nelle parole. Usiamo tutto ciò che possiamo per comunicare la Parola e in primo luogo noi stessi, la nostra testa e il nostro cuore». Certo è che i veri giudici delle omelie dei parroci non possono essere che i fedeli che, settimana dopo settimana, si radunano in chiesa per ascoltare attraverso la voce del sacerdote, insegnamenti e speranza. «Bisognerebbe chiedere a loro», ironizza infatti monsignor Rino Breoni, rettore di San Lorenzo. «Il fatto è che siamo mercanti di una mercanzia che interessa a pochi. Papa Francesco fa benissimo a dire ciò che dice. Ma è pur sempre il Papa. I parroci, invece, talvolta hanno di fronte una platea che sente ma non ascolta», riflette don Breoni, aprendo un'altra parentesi interessante e lanciando una provocazione. «Tra sabato sera e domenica, in centro ci sono oltre 180 messe. Molti ci inciampano dentro e finiscono con l'ascoltare la funzione per abitudine, per routine. E' ovviamente un'ipotesi del tutto teorica ma se provassimo a ridurre drasticamente questi numeri, avremmo i fedeli che entrano in questa o in quella parrocchia per vera volontà, senza tardare e con la voglia di ascoltare attivamente la Parola». Dopodiché, la Parola davvero passa al parroco. «E il suo dovrà necessariamente essere un discorso stringato, asciutto, che non si dilunghi oltre i 10, 15 minuti al massimo. Ma in cui ogni singolo vocabolo sia frutto di studio e di preparazione. Le riflessioni che proponiamo dovranno contenere, pur nella centralità della parola di Dio, elementi che trovano riscontro nella quotidianità. E in ciò che noi stessi abbiamo per primi vissuto», interviene don Ezio Falavegna, parroco dei Santi Apostoli. «Del resto, l'omelia è l'unico prezioso momento di comunicazione diretta con il 95 per cento dei nostri fedeli. Non ne dobbiamo sprecare nemmeno un istante». © RIPRODUZIONE RISERVATA