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Villabartolomea Il triangolo rosso sul pigiama a righe

La liberazione del campo di concentramento di MauthausenIl triangolo sullo stendardo dell’Associazione ex deportati politici
La liberazione del campo di concentramento di MauthausenIl triangolo sullo stendardo dell’Associazione ex deportati politici
La liberazione del campo di concentramento di MauthausenIl triangolo sullo stendardo dell’Associazione ex deportati politici
La liberazione del campo di concentramento di MauthausenIl triangolo sullo stendardo dell’Associazione ex deportati politici

«Delazioni, calunnie, una battuta casuale per strada, consegne non rispettate, un carro o un cavallo rifiutati ai tedeschi, l’audacia di una ragazza di negarsi alle avances di una SS, neanche veri e propri atti di sabotaggio in fabbrica, ma il solo sospetto della loro eventualità condussero centinaia, migliaia di polacchi – operai, contadini, intellettuali, uomini e donne, vecchi e adolescenti, madri di famiglia – a varcare l’ingresso del campo», scrive il corrispondente di guerra dell’Armata Rossa e scrittore Vasilij Grossman nel suo reportage L’inferno di Treblinka, pubblicato sulla rivista Znamja nel novembre del 1944. Il suo, è il primo reportage sui campi di concentramento nazisti. Alcuni mesi dopo, una di queste imputazioni, il sabotaggio, costò caro a Renzo Padovani, un giovane di Nogara finito in un campo di lavoro tedesco, vicino Hannover, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Da Imi (Internato militare italiano) divenne «prigioniero politico», con indosso una divisa a strisce e un triangolo rosso cucito sulla casacca. Da Wietzendorf fu trasferito nel vicino lager di Bergen Belsen, lo stesso dove morì, dopo il trasferimento coatto da Auschwitz, la piccola Anna Frank. Che cosa aveva fatto il giovane nogarese, allora ventunenne, per meritarsi una punizione del genere? Qualcosa di molto grave, almeno per i suoi carcerieri: aveva rallentato la macchina produttiva nazista, a causa di un sigillo finito, per sbadataggine, nell’ingranaggio di un macchinario nella fabbrica di cemento dove era costretto a lavorare, senza essere retribuito, per la costruzione della «Grande Germania», secondo il progetto di Hitler. Come Padovani, tanti altri veronesi, di città e della provincia, patirono la deportazione nazista, in Germania, Polonia o Austria. Per motivi politici, razziali o semplicemente perché considerati traditori, come i 600mila militari che non aderirono alla Repubblica di Salò, chiamati anche «gli schiavi di Hitler», costretti a lavorare, come Padovani, a costo zero e in condizioni precarie. ACCANTO AGLI EBREI, che pagarono il prezzo più alto, anche zingari e slavi furono perseguitati e uccisi per motivi razziali, insieme a omosessuali, testimoni di Geova, «asociali» e «politici». A quest’ultima categoria, che si distingueva dalle altre per un triangolo rosso cucito sulla divisa, appartenevano gli ottanta nativi della Bassa che andarono a ingrossare la lista delle migliaia di connazionali deportati nei «Konsentrationslager» (questi dati, in difetto, sono tratti dal libro di Berardo Taddei I veronesi deportati dai nazisti, pubblicato anni fa, visto che tutt’oggi, per una serie di complicazioni, non esiste un’anagrafe globale dei deportati italiani). Nei centri della Bassa, dopo l’arrivo delle forze di occupazione germaniche e dei militi di Salò, coalizzati per ostacolare le operazioni dei partigiani, il clima divenne da guerra civile, con episodi tragici un po’ ovunque. Villabartolomea fu, con nove deportati morti, il paese della provincia di Verona che pagò il prezzo più alto. Due rastrellamenti a tappeto nelle valli intorno all’Adige nel dicembre del ’44, conseguenza dell’uccisione di tre fascisti (uno locale e due militi di Salò), ebbero come epilogo uno dei fatti più tragici della Bassa, con tre giovani fucilati davanti al teatro del paese e 150 uomini di ogni età catturati. Alcuni furono subito liberati, altri furono interrogati e seviziati, altri ancora finirono nei campi di concentramento. Altri episodi legati alla deportazione accaddero a Cerea, il 13 settembre 1943, con il diciassettenne Ottenio Ongaro ucciso da un soldato tedesco mentre si stava avvicinando a un vagone carico di prigionieri nei pressi della stazione, e a Gazzo, dove il conte Luigi Perez e la moglie salvarono, nascondendolo nella loro casa colonica di Coazze, un giovane ebreo polacco in fuga: un’azione, questa, che ha fatto meritare loro, in futuro, un importante riconoscimento dallo Stato di Israele. I treni della deportazione continuarono a passare, senza sosta, da Verona. Ortensia Spaziani, figlia di Gracco Spaziani, avvocato socialista di Isola della Scala morto a Mauthausen, descrisse quel periodo nel libro Scarpe rotte eppur bisogna andar, in cui si parla anche della vicenda di Flavio e Gedeone Corrà, due fratelli di Salizzole morti nel lager di Flossenburg. Anni dopo i due giovani, studenti e aderenti all’Azione cattolica, ricevettero la laurea alla memoria dalle università di Padova e Bologna, dove erano iscritti. Senza contare il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Verona. Da Verona a Mauthausen via Fossoli e ritorno dell’ex deportato legnaghese Pio Passarin, edito nel 1995 dall’Istituto veronese per la storia della Resistenza, invece, aiuta a capire lo stato d’animo di chi visse la deportazione sulla propria pelle. Finita la guerra, i deportati sopravvissuti fecero lentamente ritorno a casa. Per anni non raccontarono la loro esperienza, sia per pudore che per l’incredulità generale che sentivano intorno, senza contare che tutti avevano un grande desiderio di ritornare alla vita normale. •

Giordano Padovani

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