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Inquinamento da «Pfas» Incontro sullo screening

«Le persone che, per eliminare i Pfas nel sangue, si sottopongono alla plasmaferesi, devono considerarsi delle vere e proprie cavie, perché non esistono studi in merito all’efficacia di questo trattamento». L’annuncio arriva dal mondo medico e, in particolare, dai dottori Vincenzo Cordiano e Francesco Bertola, ospiti di un incontro pubblico svoltosi a Bonavigo sul tema Pfas. I giovani che, a seguito dello screening nella zona rossa, vengono trovati con valori elevati di Pfas nel sangue, sono invitati a sottoporsi a trattamenti di plasmaferesi: in tutto sei, a due settimane di distanza l’uno dall’altro, da effettuare negli ospedali accreditati di Vicenza o Padova. «In realtà, questa pratica non è mai stata usata per curare l’avvelenamento da Pfas», ha spiegato Bertola, ex primario del Centro trasfusionale di Legnago ed esperto in materia. La plasmaferesi, o aferesi terapeutica, è una procedura che permette la separazione della componente liquida del sangue, il plasma, dalla componente cellulare, i globuli rossi, e la rimozione di sostanze in esso presenti. È utilizzata sia nelle donazioni di plasma, sia per «ripulire» il sangue da avvelenamenti dovuti a funghi, veleno di serpenti, abuso di farmaci e altri inquinanti, tra i quali i Pfas. Sebbene sulla carta la soluzione sembri funzionare, nella pratica non è così. «Una volta introdotti nel sangue, i Pfas passano ai tessuti legandosi con le proteine degli stessi», ha affermato Cordiano». «Se, come è stato dimostrato da chi si sta sottoponendo a queste terapie, con le prime sedute i Pfas nel sangue diminuiscono, non è detto che restino bassi. Anzi, quelli nei tessuti potrebbero tornare nel sangue e riportare i valori a quelli iniziali». • L.B.

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