<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

«Fui ferito nel bombardamento
Fuggii dal lager ma fui ripreso»

La memoria della deportazione in una borsetta da sposa: è lì, nella borsetta che Caterina Mancassola usò il 2 dicembre del 1952, quando sposò Adolfo Giusti a Santo Stefano di Zimella, che per oltre settant’anni è rimasto custodito il block notes col racconto, inedito, della deportazione di suo marito.

È l’8 settembre 1943, «quando comandava il Re», scrive il ventunenne Giusti, guardia di frontiera in servizio alla stazione centrale di Tarvisio. Alle 4 del mattino del giorno successivo a quell’armistizio che aveva trasformato gli alleati tedeschi nel nemico che ti chiama traditore, prima ancora che il sole sorga, viene catturato: è uno delle migliaia di militari che «inaugurano» i trasporti, uno di quegli Imi (Italienische militär-internierte, Internati militari italiani) che vengono sbattuti sui carri destinati al bestiame che per i successivi venti mesi diventeranno il mezzo di deportazione della «manovalanza» umana destinata allo sterminio.

Su quel treno destinato agli animali i prigionieri ammassati viaggiano per giorni senza che nessuno porti loro del cibo. Dopo qualche giorno si ferma definitivamente. Incolonnati, i prigionieri vengono fatti camminare per le strade di un paese dove la gente brandisce forche e badili e li accoglie gridando «Italiani, kaputt». Siamo a Bad Orb, una cinquantina di chilometri ad Est di Francoforte, in Assia: a poca distanza dalla cittadina c’è Wegscheide, e lo Stalag (abbreviazione di Stammlager, campo per truppe e sottufficiali) IX-B dove viene rinchiuso. Adolfo descrive le torrette di guardia, il filo spinato, un campo brullo in cui non c’è un filo d’erba: pensa (e scrive) che l’erba sia stata mangiata dai prigionieri che sono arrivati lì prima di lui. Racconta di massacranti turni di lavoro in fabbrica, di 12 ore di lavoro al giorno alternati tra una settimana al turno di giorno e quella successiva al turno di notte e racconta delle SS che fanno pressione sui militari internati perché combattano per il Reich: il nemico è la Russia.

È a Francoforte quando la città, il 19 ed il 22 marzo 1944, viene bombardata: è stato trasferito lì con altri 100 prigionieri, che vivono in uno scantinato, per lavorare in una fabbrica funzionale all’industria bellica. Il secondo bombardamento fa scappare carcerieri e prigionieri: Adolfo è ferito alla schiena e viene caricato in spalla da un prigioniero che si chiama Visentin, un compagno che rivedrà a guerra finita.

L’amico lo porta a spalla per 10 chilometri, fino all’infermeria destinata ai feriti tedeschi. Adolfo non dice una parola, lo medicano e tre giorni dopo lo trasferiscono in ospedale: è lì, però, che qualcuno si accorge che non è tedesco. Scatta, allora, il reinvio al campo: in stazione lo attende un poliziotto tedesco che lo accoglie con un pugno. Lo caricano su un treno stipato di soldati tedeschi che stanno raggiungendo Verona: gli propongono di scrivere alla famiglia una lettera che faranno arrivare a destinazione. Alla fermata stabilita, Adolfo scende: lo attende un altro poliziotto che lo riporterà al campo. Passano pochi giorni ed Adolfo sta male: lo scoppio di un ascesso lo costringerà al ricovero in un ospedale francese per prigionieri. Sarà la sua salvezza perché in quella struttura il ragazzo rimarrà per sei mesi. Una volta dimesso, vivrà l’ultimo episodio di crudeltà ad opera di un SS che in stazione lo obbligherà a spingere, malconcio com’è, un vagone carico di rottami. Adolfo è debole, la scheggia di bomba che ha ancora nella schiena (e che lo farà soffrire tutta la vita) gli fa male. Il soldato non ha pietà e lo sbatte con violenza contro il vagone.

Il racconto dei fatti finisce qui, ma non quello delle emozioni: Adolfo si interroga sulle ragioni di ciò che è accaduto, è impietrito davanti alla freddezza delle SS, si domanda come quegli uomini siano stati capaci di consumare azioni di crudeltà inaudita senza essersi mai resi conto di farlo su altri esseri umani. «Perché gli esseri umani devono distruggersi?», scrive.

Tornerà a casa solo nell’estate del 1945, magrissimo con addosso abiti civili: un bagno nel pozzo della corte di casa, poi la vita nuova. P.D.C.

Suggerimenti