<img height="1" width="1" style="display:none" src="https://www.facebook.com/tr?id=336576148106696&amp;ev=PageView&amp;noscript=1">

Al bar di Zago
dove si beveva
un bel Niente

Gianni Zago al banco del suo bar: si definiva «Signore di Ronco e Principe delle Sei Venezie» FOTO DIENNEMiss Gingerino al bar di Zago a Ronco all’Adige
Gianni Zago al banco del suo bar: si definiva «Signore di Ronco e Principe delle Sei Venezie» FOTO DIENNEMiss Gingerino al bar di Zago a Ronco all’Adige
Gianni Zago al banco del suo bar: si definiva «Signore di Ronco e Principe delle Sei Venezie» FOTO DIENNEMiss Gingerino al bar di Zago a Ronco all’Adige
Gianni Zago al banco del suo bar: si definiva «Signore di Ronco e Principe delle Sei Venezie» FOTO DIENNEMiss Gingerino al bar di Zago a Ronco all’Adige

Il suo regno era il bar in via del Popolo, a Ronco all’Adige, capitale di quelle Sei Venezie che aveva in testa solo lui e non si è mai capito che confini avessero. È di Gianni Zago che parliamo, morto quattro anni fa (l’anniversario è domani) a 69 anni, personaggio eclettico e stravagante, estroso e permeato di buon senso e ilarità. Si faceva chiamare «maestro» e maestro del lavoro lo era diventato davvero nel 2008, con il suo mezzo secolo trascorso dietro al bancone.

Ma l’epiteto stava a indicare una caratteristica, più che un mestiere: Zago era un maestro di vita. Che se la cavava bene con i cocktail, intrugli analcolici, poco alcolici e anche molto alcolici, famosi nella provincia veronese e vicentina più per i nomi che per la qualità del prodotto. Dentro, non si sapeva che cosa ci fosse veramente, perché era vietatissimo scrivere sul listino gli ingredienti. Si bevevano a scatola chiusa. Bitite, liquori, vermut e succhi, tutto mischiato assieme.

Il Gian Tega, il Gian Bomba, il Gian Turbo, il Gianalcolico e l’aperitivo Gianni. C’era anche il «Niente», così se qualcuno gli diceva: «Per me Niente, grazie!», si trovava davanti un bel bicchierone di miscuglio di bibite e chissà che cosa. Il suo non era un bar, ma un museo, una galleria di ricordi, un pezzo di storia di Ronco, andato perduto. C’erano alcuni suoi quadri esposti, il pianoforte impolverato, la sua chitarra appesa, le sue caricature, l’acquario, le foto di centinaia di clienti, più o meno famosi, appese sopra la porta d’ingresso, le dediche, oggetti introvabili e la stanza dei suoi presepi, a cui si dedicava ogni Natale.

Era un pittore, un artista, un poeta ed un cantante. Ha cantato in vari gruppi negli anni ruggenti, negli anni Sessanta, quando Ronco e San Giovanni Lupatoto erano capitali beat del Veronese. Portava camicie impossibili da vedere e cravatte e dei foulard che definiva semplicemente «chic», ma che erano invece kitsch.

Se non sapevi dove si trovasse un luogo o un esercizio nella Bassa o nell’Est veronese, te lo indicava lui. Se non trovavi un gadget te lo procurava lui. Quando ti chiamava al telefono, si presentava così: «Parla sua altezza eccellentissima il Maestro, Signore di Ronco, Principe delle Sei Venezie».

Tre generazioni di clienti, che conosceva a uno a uno. Conosceva i loro patemi, le loro storie, i loro problemi, il loro vissuto che teneva per sè. E se uno entrava e non lo conosceva, ti chiedeva: Ci elo cherlì?, chi è quello lì? Non poteva rimanare sconosciuto a lui, nel suo esercizio. Quando si presentava, diceva: «Piacere, sono il Maestro».

Era un po’ megalomane, ma a ragione. Lui, inventore del cocktail superafrodisiaco e coloratissimo, quando non esistevano le pastiglie azzurre di Viagra, parlava come un filosofo che cerca di trasmettere ai suoi adepti le sue teorie sulla vita, sulle donne, sugli amori, gli affetti, la politica, la religione, su tutto. «Se l’ignoranza la fosse ’na foja, seto che ombra che ghe sarìa» (se l’ignoranza fosse una foglia, sai che ombra ci sarebbe) sosteneva.

Parlava con quella fretta di pronunciare le parole tipica di chi vuol dirti tutto quello che gli passa per la mente in pochi secondi e anche di più. Lui non si scomodava per andare a vedere personaggi o personalità di passaggio in paese: erano loro che, a fine incontro, si fermavano da lui, al suo bar. «Andiamo da Zago», dicevano.

Le coppie che si sposavano, usavano prendere l’aperitivo nel suo locale, che si trovava proprio davanti la chiesa parrocchiale, come segno ben augurale. Nel suo bar, negli anni Ottanta si cantava e si suonava. Era luogo di ritrovo, di quelle che Max Pezzali ha chiamato «le immense compagnie». Quelle compagnie che si spostavano in motorino Ciao e Oxford con la nebbia e il freddo della pianura padana, che ti inseguiva da un paese all’altro. Zago ha segnato un’epoca e ha lascianto un grande vuoto.

Ha taciuto a lungo il suo male incurabile. Per il suo funerale, nel 2013, sono tornate a Ronco le generazioni di avventori che sono passate dal suo bar, per manifestargli il loro affetto. Gente dalla Bassa, dall’Est veronese, dalla Lessinia, dall’Ovest vicentino e persino dal Mantovano.

In questi quattro anni, sono mancati ai suoi avventori i suoi cocktail colorati, i suoi adesivi, le magliette con il suo faccione sorridente, i suoi portachiavi che fungevano da cavatappi, i calendari «spinti» con il seno ben in vista e soprattutto le sue massime filosofiche, espressione di tanto tanto buon senso e capacità di ascolto.

Gian Zago era un libertino, innamorato della vita. Era un signore d’altri tempi, che si sentiva eternamente giovane. Era un barman, un barista, un oste, un inventore, un artista, un insegnante e un commerciante, tutto insieme. Era un matto con tanto «sentimento» (alla veronese). Era un filosofo con una innata teatralità. Si autodefiniva un «megalomane sentimentale».

È stato un maestro, senza avere mai insegnato. Ecco perché un giorno, quando saremo vecchi, ai nostri nipoti potremmo dire: «Noi che siamo cresciuti andando da Gian Zago a Ronco, il Maestro».

Zeno Martini

Suggerimenti